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domingo, 9 de febrero de 2014

Testimonianza poetica di Omar Khayyam dove oggi solo rimane il diserto

Omar Khayyam è forse il più importante poeta del Medio Oriente, ha dimostrato la sua grandezza sulla pietra di paragone della storia: la sua poesia è sopravvissuta a un migliaio di anni ed è stata tradotta in tutte le lingue occidentali. Nato in Persia, ora Iran, nella città di Nisharpur (1040-1123 a.c.). Notevole matematico e astronomo del suo tempo, ma la sua migliore forza dello spirito la versò nella poesia nelle sue famose quartine, raccolte queste nel suo libro Rubàiyàt.
Molti orizzonti artistici ed esistenziali si incrociano nel Rubàiyàt: su un linguaggio nuovo per l’epoca –”la selvaggia chiarezza dei suoi versi” ha scritto una volta Harold Lamb, uno dei suoi biografi moderni– dove identificava poesia e libertà, ha utilizzato il ludismo espressivo veicolo del suo coraggio, in uno stile spensierato ed irriverente, Omar Khayyam rivelarà volontariamente al mondo le sfumature drammatiche della società persiana d’allora, ma senza permettere di essere sopraffatto da ciò, cantò di modo meraviglioso alla celebrazione della vita, all’amore, alle donne, al vino, in fine. Ora, anche se non intenzionalmente “ex profeso” lasciarà nei suoi versi la testimonianza del bellissimo e robusto ambiente vegetale della Persia di quei lontani secoli.
Sono passati mille anni da quando si hanno fatto conoscere le quartine di Khayyam. Oggi il paesaggio del Medio Oriente è dominato dall’arido, il deserto. Non appare mai nei versi del Bardo di Nishapur il deserto, al contrario, l’esuberanza della fitta vegetazione viene esalta. Se l’opera letteraria sostenuta sulla spontaneità e la franchezza non nega mai il suo paesaggio, quindi non avrà nessun dubbio sulla legittimità del contesto della sua poesia. Emerge costantemente nei suoi versi il vasto verde della sua amata comarca.
“Risplende la luna di Rabadán. / Bagnerà di luce al sole, mattina, una città silente./ Dormiranno i vini nelle caraffe e le giovani donzelle all’ombra dei boschi “.
Attraversano in modo rivelatore il suo linguaggio poetico i fiori: narcisi, eglantine, tulipani, giacinti, viole, rose. Inteneriscono la lettura della sua poesia frasi come “campo fiorito”, “prato verde”, “rosso tulipano di primavera.” Ci sono con molta frequenza le sue emotive espressioni erotiche, voci quali giardini, boschi, ruscelli, usignoli, rodedal, farfalle, fronde, giungle, ed in fine un vera policromia selvatica.
“Figura in questo mondo un giardino di rose. Farfalle le sue visitatrici. / I nostri musicisti i giubilanti uccelli.
… Quando ne rose ne fronde ci siano rivelarano le stelle il mio giardino di rose e i tuoi ciuffi la mia giungla “.
Attraversò, in modo indiscutibile, con una chiara coerenza della percezione, lo epocale il suo corpus lirico, le sue ballate, con esso il paesaggio della sua amata terra dove prevaleva, sulla sabbia marrone di oggi, una volta piante, foreste, lo selvatico. Proprio a quel vigore vegetale si è dovuta laelevata luminosità e la serenità delle composizioni liriche di Rubàiyàt… Rimane agli ambientalisti ed ecologisti rispondere alla seguente domanda: Che cosa è successo con tanto verde? Oppure, parodiando al fondatore della poesia spagnola, Jorge Manrique (XV secolo a.c.), prestiamo a lui le sue parole e il ritmo della sua poesia per dire … / che sono stati, se non spruzzi/ dei prati?”
Chiudiamo questo scritto con una quartina di Omar Khayyam, “«Lozanea» il volto delle rose la brezza primaverile, accarezza la mia ben amata nell’ombra «azulada» del giardino. / Nella ventura di questo momento godo, la irresistibile dolcezza del presente”.
Attualmente Iran ha una superficie di 1.648.000 km2, con il 70% del suo territorio, desertico o semidesertico.
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